Prospettiva.
Questa parola e il suo più esteso significato mi hanno da sempre affascinato, fin da quando me la insegnarono a scuola. O almeno, ci provarono. Sì, perché alcuni la possedevano come un sesto senso, un superpotere innato e, quando si dovevano disegnare quelle due strade parallele verso l’infinito, questi riuscivano a rendere l’illusione che le due rette si avvicinassero progressivamente, fin quasi a toccarsi laggiù, dove il foglio stava per finire.
Altri, invece, avendola magari maturata grazie al consumo smodato di fumetti o illustrazioni, la vedevano nella vita reale, ma su carta proprio non riuscivano a renderla, producendo strambe riproduzioni moderne di iscrizioni egizie, un abbozzato 2D senz’arte né parte. Questa è la prospettiva del disegno, dell’arte, dell’architettura, del campo visivo insomma.
Poi c’è quella del suo senso figurato, quell’espressione, che – almeno nel mio caso – si è iniziata a comprendere e apprezzare solo col tempo: «Mettere le cose in prospettiva» o, come dicono oltre la Manica, put things into perspective.
Io ero uno di quelli che facevano il disegno delle due strade coi piedi (anzi, senza dubbio ancora lo farei) e forse anche “l’altra prospettiva”, quella della vita reale e della scelta delle effettive priorità, non l’ha ancora ca(r)pita come si dovrebbe.
Però, da quando ho messo il culo su una bici e ho iniziato a pedalare, qualcosa è cambiato, uno strappo nel cielo di carta di pirandelliana memoria si è percepito, le certezze fittizie su cui avevo costruito parte della mia vita quotidiana hanno iniziato a vacillare fino a farmi rimettere in discussione scopo e valori, nonché l’importanza del metro di misura dell’esistenza stessa, che sono sempre più convinto non sia corretto calcolare in giorni, mesi, anni, bensì in sorrisi sinceri, cieli azzurri, ma anche in temporali imminenti, in attimi di gioia, in fragole divorate, in fragranti movimenti di onde e brividi sul coppino.
Mi trovo a Montalcino. Anzi, più precisamente mi trovo sotto Montalcino, sulla Strada Consortile detta Sferracavalli, una rampa ripida di 3 chilometri scarsi che mi condurrà da quota 240 metri a quota 560. Le pendenze a doppia cifra durante la frullata sembreranno assurde.
Dopo, pazzesche.
Pedalo con l’amata Purple Panther, con cui sto da qualche tempo condividendo fatiche e gioie. Sono in zona per qualche giorno, per un lavoro di tracciatura per alcuni tour in Val d’Orcia. Ne avevo bisogno come l’ossigeno, dopo il tremendo anno 2020 che tanto ci piaceva nominare, prima, quando quel doppio ridondante binomio musicale suonava così bene, quando ancora non conoscevamo parole come lockdown, Covid, restrizioni o assembramento.
Ma torniamo a noi, alle spinte repentine sui pedali, al punto panoramico di Via Postierla, ora Piazza Camillo Benso Conte di Cavour, che da lassù sembra schernirmi.
È questo che succede quando si è di buonumore e si pedala – che poi è facile essere di buonumore quando si pedala e, anche quando si è di cattivo umore, basta continuare a pedalare.
Così come poco fa, quando stavo passando la prima curva di livello dei 300 metri e mi arrestavo davanti a un cartello riportante il numero 20 a indicare il livello di pendenza della salita, la mente ha continuato nel suo elaborare e svolazzare.
Mi ha riportato a quando tutto questo iniziava, quasi per scherzo, in una torrida estate del 2012. Si voleva scappare dalla solita equazione estate = fine degli esami = spaparanzarsi su una spiaggia per una settimana, sempre la stessa o sempre diversa poco cambiava.
Così il geniale Alessio, che non smetterò mai di ringraziare, se ne uscì con un: «Dai, quest’estate prendiamo la bici e andiamo a fare un viaggio. Non partiamo da casa in macchina, arriviamo sul posto, parcheggiamo i mezzi e ci spiaggiamo, usando la bici di tanto per andare a comprare il pane. Facciamo proprio il viaggio in bici: ogni giorno in un posto diverso, ci portiamo tutto l’occorrente, la bici come nostro unico mezzo di trasporto e nostra casa, il viaggio come viaggio».
Dopo qualche remora per una tale rivoluzione nella concezione di una vacanza, che all’epoca sembrava addirittura blasfema, insensata e per nulla rilassante, nonché dopo un impavido acquisto (per ben 70€) di un’improvvisata compagna d’acciaio firmata Gianni Bugno nei pressi del Ponte Coperto di Pavia che all’epoca ci ospitava quali studenti universitari, partimmo.
Zaino sulle spalle per il sottoscritto, ben più professionali panniers per Alessio e il terzo cicloslavista, Patrik. Uno delle tartarughe Ninja il primo, due crucchi i restanti, ispirati anche e soprattutto dalle proficue letture di Rumiz e Altan.
Ricordo ancora ora, mentre fatico su questa Sferracavalli, le mulinate a vuoto per star dietro agli altri, le prime lacrime del viaggio, la scoperta delle radler, il profumo di resina dei boschi e l’umidità ammorbante della Drava nei pressi di Spittal, quel suo ingrandirsi e farsi più impetuosa, per poi quasi congelarsi bloccata crudelmente dalle numerose dighe, il puzzo degli abiti sudati, le difficoltà insormontabili che adesso mi fanno sorridere, i sacchi “del rudo” (per i non pavesi “della spazzatura”) usati per impermeabilizzare zaini o borse laterali, le gambe di marmo la sera e i risvegli lentissimi la mattina, con un’inspiegabile voglia di andare.
Si era ufficialmente mosso il convoglio del viaggio in bicicletta, stavamo assistendo alla germinazione di un gene che avrebbe influito su tutte le scelte di future vacanze. La risposta alla noia e alla monotonia sarebbe stato il cicloturismo, il viaggio nella sua più travolgente accezione, quello che amplifica i sensi e immerge a forza nella cultura del luogo in cui pedali.
Salita che, mentre un clic mi avverte di aver terminato i rapporti a disposizione, mi fa subito venire alla mente la mia terza avventura in bicicletta, dopo una seconda estate su un’altra famosa ciclabile piuttosto pianeggiante, quella del Danubio, da Passau a Bratislava. Questa pedalata è stata meno segnante della precedente, forse perché molto simile e a tratti anche noiosa per i drittoni infiniti e i cambi di sponda ripetitivi.
Poi venne il 2014, quello delle salite toste, quando con un’improbabile compagnia cicloturistica, insieme agli inseparabili Alessio e Matteo, affrontammo gioie e dolori della Via Francigena in bicicletta. Partimmo da Pavia, ancora immersi nella sua atmosfera del quinquennio universitario, verso Roma sull’antica via di Sigerico. Le due scalate che ricordo con timore reverenziale sono il Passo della Cisa, caposaldo di ogni pellegrino (a piedi o in bici poco importa) che si ritrovi a percorrere questo dedalo di vie verso la capitale eterna, e la meno impegnativa – ma all’epoca più sconvolgente – scalata a Radicofani, molto vicina a dove ora ci troviamo io e Davide, così vicina che saremo in grado di intravederla, all’orizzonte, oltre quelle colline e i gruppi di cipressi, in cima.
Si prosegue, pedalando freneticamente, sia sui pedali che nel vortice della memoria. Il meccanismo era dunque oliato, gli ingranaggi si muovevano in concerto, all’unisono, senza cigolii. Cioè, i cigolii li faceva la Bugno, che cambiai abbastanza in fretta. Feci dunque un upgrade acquistando il vecchio mezzo di Alessio che aveva sostituito con una strana bicicletta americana che, molto costosa ma a detta sua comodissima, l’avrebbe portato lontano – affermava. Intanto la consolidata routine delle due settimane di viaggio non smetteva di scaldarci il cuore e impegnarci l’estate, tra programmazione e svolgimento.
Dopo l’esperienza sulla Via Francigena per ben due anni di fila traversammo l’Italia: una prima volta da Firenze a Salerno con una compagnia di folli (Davide, Emanuele e Matteo), una seconda in coppia con l’intramontabile Alessio, passando per i luoghi distrutti dal tremendo e devastante terremoto del 2016, sempre partendo da Firenze ma giungendo a Matera, una vera perla di città.
Dopo l’incontro con i miei simili, i cicloviaggiatori, al BAM di Mantova, e così aver compreso che siamo veramente in tanti matti a godere del “viaggio come viaggio”, è giunta una catarsi chiamata Salsa Fargo, un acquisto rivoluzionario, una dichiarazione d’amore al voler seguire questa cosa magica che è il vagabondare in bici. Quasi per caso, a una serata in cui ho sognato ascoltando e conoscendo un guru dei viaggi come Stefano Scapitta, mi sono innamorato di quella che poi sarebbe diventata la mia Purple Panther, tempio di comfort e velocità, di rapporti agili e manovrabilità, che ormai mi accompagna in uscite brevi, piccoli viaggi e – si spera in futuro – grandi traversate senza meta.
Con lei, a cui sto chiedendo uno sforzo estenuante per portarmi oltre quella porta di ingresso a Montalcino, ho affrontato i primi trail, l’ho smontata e inscatolata per volare in Lettonia a sgranocchiare del selvaggio gravel, l’ho cosparsa di salsedine per condurla a solcare le strade degli Dei nel Peloponneso e tra i ricordi d’asfalto della Sicilia.
Ora siamo qua, legati oltre che da un sentimento reciproco anche da due saldi agganci SPD, a muoverci lentamente come solo noi sappiamo fare, forse con poca grazia, ma certamente con tanta sete di toccare il culmine di questa interminabile scalata sulla strada dei ricordi.
Ciò che poco fa era un piccolo irraggiungibile sogno lontano e alto, uno sparuto gruppo di case che pareva una presa in giro dover raggiungere, ora è nostro, mio e della Purple Panther. Fiatone nei timpani, sguardo di soddisfazione, cerco un punto panoramico e lo raggiungo nel miglior momento possibile: sono arrivato in cima durante la golden hour, un regalo duro da buttare giù in scioltezza.
Un attimo, quasi impercettibile. Sale un motivato ma inatteso calore al volto, poi giunge un brivido, gli occhi si riempiono di bellezza, umettati da una tiepida lacrima: in un momento realizzo di aver conquistato qualcosa che non mi appartiene – o, per meglio dire, capisco che qualcosa che non mi appartiene mi ha conquistato – eccola, la prospettiva, la percezione di essere piccolo, ma di poter sentire grandi cose.
Proprio come quella prospettiva che ci insegnavano a scuola e che alcuni avevano innata e altri no.
Prima laggiù, ora in cima a Montalcino.
Prima uno scherzo estivo, ora una scelta di vita.
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