Massimo Armati | Cuoco in bicicletta

Cuoco per caso, cicloviaggiatore per passione, un giorno ho scoperto che sulla bicicletta ci potevo caricare un sacco di cose, e da allora giro il mondo a caccia di ricordi. Mi muovo lentamente alla ricerca di un nuovo orizzonte, di un sorriso gentile o di un profumo esotico. Esploro nuove culture e antichi cammini pedalando sulle cicatrici di tragici conflitti, deserti silenziosi e metropoli invivibili. Rallento, mi fermo e faccio domande seguendo un percorso spesso improvvisato, dettato dall’ultimo consiglio o dall’ennesimo imprevisto.

Il mio girovagare è iniziato quando ancora internet misurava le distanze con un click e a rendere impermeabili le borse erano dei sacchetti di plastica. I primi timidi passi da viaggiatore li ho mossi sulle Dolomiti, sono seguite le Alpi francesi e poi di seguito ho raggiunto le estremità dell’Europa pedalando di volta in volta prima verso Santiago de Compostela, poi a Gibilterra, Istambul, Ostenda ed infine Riga. Ogni volta ho pedalato fino all’ultimo lembo di terra percorribile e ammirato l’ultimo tramonto in riva ad un mare diverso. Si sono alternate le avventure alla ricerca di mondi nuovi come la selvaggia Patagonia, gli altopiani Boliviani, il Marocco, l’ospitale Giordania e la più complicata Etiopia.

Gli autori di Impronte | Massimo Armati | L'orizzonte infinito

Massimo Armati | Cuoco in bicicletta

Sono però stati i Balcani Occidentali, la ex-Jugoslavia in particolare, ad attrarmi maggiormente e a farsi eleggere come luogo del cuore, quello in cui tornare appena possibile. Ci sono stato in diverse occasioni e ogni volta resto rapito dalle contraddizioni e dalle mille sfaccettature di un territorio da sempre appesantito dalla sua storia. Tutto questo senza mai snobbare i percorsi nostrani.

Ho raggiunto la Sicilia in bicicletta, pedalato sui sentieri più improponibili delle orobie, attraversato l’alta via dei monti liguri, percorso vecchie strade militari e faticato sulle salite storiche del Giro d’Italia. Ed è proprio sulle strade della corsa rosa sono riuscito a coniugare il ciclismo lento del viaggiatore, quello dei Watt dei professionisti e quello goliardico dei tifosi che non si prendono troppo sul serio. Senza nessuna vergogna sono solito pedalare in “assetto” da viaggio, vestito da cuoco mescolato ed incitato dalla marea di fans che aspettano il passaggio della corsa.

Il cuoco in bicicletta è nato così.

Il Salar de Uyuni è inserito all’interno di un viaggio che prevedeva la partenza da Santa Cruz de la Sierra nella foresta amazonica Boliviana per poi salire lentamente sugli altopiani ad ovest del Paese e terminare nella capitale La Paz. Il percorso è stato disegnato per consentire un giusto acclimatamento e non soffrire del mal dall’altitudine. Ho infatti raggiunto prima Sucre, splendida città coloniale collocata a 2800 m.s.l. e solo in seguito Potosi, altra splendida cittadina che invece è posta a ben 4000 metri.

Sul percorso ho goduto degli splendidi paesaggi rurali e selvaggi che la Bolivia offre e che da soli varrebbero il viaggio. Dopo la visita di queste due località la strada perde leggermente di quota per immergersi sull’immenso altipiano posto a 3600 metri dove è collocato il Salar de Uyuni. Per attraversare e pedalare sul Salar è sufficiente seguire le tracce lasciate dalle Jeep che negli anni hanno colorato in maniera poco naturale il sale.

Le piste da seguire sono differenti, ma la maggior parte conducono all’isola Incahuasi centro turistico e unico punto abitato dell’intero Salar. Il salar è grande più o meno come l’Abruzzo ed è bene partire ben forniti in quanto le distanze, seppur prive di salite, sono comunque impegnative. Nel complesso si tratta sicuramente di un viaggio appagante, ma che richiede una buona dose di spirito di adattamento, un discreto allenamento e tanta crema solare! In circa tre settimane ho percorso 1200 chilometri con un dislivello importante attorno ai 1300 metri medi giornalieri.

Il cuoco in bicicletta, Massimo Armati, scritto su Impronte – Storie a pedali numero 1/2021

Massimo Armati

Il custode del silenzio

Salar, percezioni sospese tra terra e cielo

Il sognatore Massimo, noto sul web come Cuoco in bicicletta, vive un’avventura indimenticabile nel luogo più assurdo del pianeta, il Salar de Uyuni, dove all’orizzonte il cielo e la terra sono un tuttuno, si mescolano, come le emozioni che frullano in chi ci pedala. Con saggezza e sensibilità ci accompagna nella sua esperienza, in bicicletta, nel Salar.

Impronte - Storie a pedali numero 1/2021

Colchani è polverosa e desolata. Mi regala un’atmosfera da film western. Non c’è un saloon, ma un ristorante che profuma di carne di lama alla griglia, mentre le diligenze sono vecchi bus dall’incedere goffo e allo stesso tempo incontenibile.
La porta del Salar è qui a pochi minuti e quasi non si percepisce. La prospettiva inganna, la frenesia aumenta. Per un attimo mi assale il dubbio di aver sbagliato strada. Poi, inaspettatamente, all’orizzonte una sottile linea bianca si inserisce tra cielo e terra, tra il blu cobalto che sovrasta ogni cosa e l’ocra acceso del terreno desertico che mi circonda.
Una linea che a ogni pedalata aumenta di spessore, come un sipario che lentamente si abbassa, come il velo che si sfila quando si scopre il quadro di un pittore importante.

Il silenzio del Salar avvolge tutto, tanto ovvio quanto inaspettato. Esattamente come l’uniformità che mi circonda: ora è tutto azzurro e bianco, cielo e sale. L’orizzonte non offre altro. È incredibile come uno dei luoghi più affascinanti del mondo possa conquistarti con la sua monotonia estrema che non si tramuta mai in noia. Tutto questo senza che si possa mai percepire angoscia per questa solitudine, per questo isolamento che mi avvicina all’alba del mondo evocando pensieri che irrorano la mente di emozioni tanto difficili da trasmettere.
Proseguo la navigazione in questo mare, con i suoi confini lontani, il suo alone di mistero e le sue isole. Pochi speroni di superficie emersa, aridi e brulli, quasi tutti deserti a eccezione dell’isola di Incahuasi. Un mucchio di terra, sassi e cactus che accoglie saltuariamente qualche pirata a due ruote e ogni giorno crociere di turisti a bordo di jeep veloci e incrostate di sale. Sbarcano a gruppi di cinque. Arrivano da ogni parte del mondo e sono tutti in attesa del tramonto da catturare per lo scatto più bello.

Don Alfredo mi porge il libro delle firme che, come in ogni rifugio che si rispetti, è un condensato di emozioni, vite e avventure di ogni tipo.
Ci sono viaggiatori da tutti i continenti, c’è chi ha raggiunto l’isola a bordo di un fuoristrada e chi ha viaggiato per mesi in sella a una bicicletta, chi dedica il tramonto all’amico che non c’è più e chi ha deciso di scambiarsi gli anelli proprio qui, per un matrimonio simbolico in un luogo insolito e unico. Prima di aggiungere il mio piccolo ricordo, leggo avidamente tutte le storie di chi mi ha preceduto in questo piccolo eremo consacrato alla bellezza eterna.
Sto per soffiare sulla mia candela, quando scorgo la sagoma di una persona che cammina in quel lembo di isola dove la terra si mescola al sale e assume una colorazione indecifrabile, quasi meticcia. Dopo pochi passi Don Alfredo si ferma, volge lo sguardo al cielo e ascolta, come ha fatto per la maggior parte della sua vita e come avrà fatto quel giorno in cui decise di trasferirsi qui. Il giorno in cui decise di essere il custode del silenzio.
Forse è un’abitudine quotidiana, un rituale intimo, quasi mistico. Un momento in cui sveste i panni leggeri dell’oste per tornare per qualche momento in simbiosi con quello che lo circonda e che forse un po’ gli appartiene.

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